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RUOLO DELL’ATTIVITÀ FISICA NEL MIGLIORAMENTO DELLE ATTIVITÀ COGNITIVE

Svolgere attività fisica due volte alla settimana può migliorare la capacità cognitiva e la memoria nelle persone con decadimento cognitivo lieve (Mci), secondo quando riferiscono le linee guida aggiornate della American Academy of Neurology, approvate dall’Alzheimer’s Association e pubblicate su Neurology. «È importante il fatto che l’esercizio fisico possa aiutare a migliorare la memoria in questa fase, poiché è qualcosa in più che le persone possono fare e che ha benefici per la salute in generale» afferma l’autore principale del documento, Ronald Petersen, della Mayo Clinic di Rochester, Minnesota. «Poiché il Mci può progredire verso la demenza, è particolarmente importante che il disturbo venga diagnosticato precocemente» aggiunge. Gli autori delle linee guida hanno sviluppato le raccomandazioni dopo aver esaminato tutti gli studi disponibili su Mci. In tutto il mondo, oltre il 6% delle persone nella fascia di età dei 60 anni ne soffre e la condizione diventa più comune con l’aumentare dell’età, fino ad arrivare a colpire oltre il 37% delle persone di età pari o superiore a 85 anni.

Le persone con Mci hanno sintomi più lievi della demenza, ma ci sono dati forti a sostegno del fatto che questa patologia possa portare alla demenza stessa. Le linee guida sottolineano che non esistono farmaci approvati dalla Fda per il trattamento dei pazienti con Mci, e che non ci sono neppure studi di alta qualità a lungo termine che suggeriscano che farmaci o cambiamenti nella dieta possano avere effetti benefici nel ritardare il peggioramento delle condizioni della memoria. Secondo gli autori, i medici dovrebbero raccomandare alle persone che soffrono di questo problema di fare esercizio fisico regolarmente come parte di un approccio generale alla gestione dei sintomi. Anche se non sono state condotte sperimentazioni a lungo termine, infatti, studi di sei mesi suggeriscono che allenarsi due volte alla settimana potrebbe migliorare la memoria. Inoltre, i ricercatori invitano i medici a raccomandare un allenamento cognitivo per le persone con Mci, pur basandosi su prove deboli. «A volte i problemi di memoria sono un effetto collaterale dei farmaci, dei disturbi del sonno, della depressione o di altre cause che possono essere trattate. È importante non dare per scontato che siano dovuti all’invecchiamento e consultare il medico per determinarne la causa principale. Un intervento precoce può impedire il peggioramento dei problemi di memoria» conclude Petersen.

Neurology 2017. doi: 10.1212/WNL.0000000000004826
http://n.neurology.org/…/ea…/2018/01/05/WNL.0000000000004826

​DISTURBI DI MEMORIA. LA MAGGIOR PARETE DEGLI ADULTI NON SI RIVOLGE AL NEUROLOGO.

E’ importantissimo fare diagnosi differenziale precoce fra deficit di memoria legati all’età o ad una demenza.

Gli adulti sotto i 65 anni con disturbi della memoria raramente ne parlano ai loro fornitori di servizi sanitari, secondo uno studio pubblicato su Preventing Chronic Disease e firmato da Mary Adams, On Target Health Data LLC a West Suffield, Connecticut. «Anche se l’US Preventive Services Task Force non raccomanda lo screening di routine per la demenza, che spesso si manifesta precocemente con disturbi mnemonici, una diagnosi tempestiva è auspicabile per diversi motivi tra cui l’esclusione di cause trattabili» spiega la ricercatrice sottolineando un’altra importante considerazione, ossia la possibilità di identificare i disturbi mnemonici quando l’individuo è ancora in grado di a partecipare al processo decisionale circa il suo futuro. Gli autori ricordano anche che l’Affordable Care Act prevede per gli assistiti Medicare anche una valutazione cognitiva durante il loro check up annuale. Ciononostante, la maggior parte degli adulti under 65 con disturbi mnemonici soggettivi tende a non parlarne con il suo fornitore di assistenza sanitaria, perdendo l’occasione di ricevere una diagnosi precoce e un tempestivo trattamento.

«Il nostro obiettivo era di approfondire la mancata interazione tra pazienti adulti con deficit mnemonici e professionisti sanitari» spiega Adams, che usando i dati del 2011 relativi al sondaggio Behavioral Risk Factor Surveillance System ha identificato circa 10.000 adulti di 45 anni o più anziani che riferivano disturbi mnemonici soggettivi tra cui momenti di confusione o di perdita della memoria verificatisi spesso o peggiorati nell’ultimo anno. «Di questi, solo un individuo su quattro ha parlato del problema con un operatore sanitario durante le ultime visite mediche» puntualizzano i ricercatori, aggiungendo che i più propensi a confidarsi con il medico erano coloro nei quali i disturbi della memoria interferivano con le faccende domestiche o con l’attività lavorativa. Ma quello che colpisce di più è che solo il 42% di chi ha esposto i disturbi al proprio fornitore di assistenza sanitaria ha ricevuto un trattamento. Conclude Adams: «Questi risultati suggeriscono che la valutazione cognitiva richiesta dall’Affordable Care Act potrebbe essere utile anche negli adulti sotto i 65 anni».

​IL CONSUMO DI PESCE PROTEGGE IL CERVELLO DALL’ALZHEIMER

In uno studio svolto su pazienti anziani deceduti, un moderato consumo di pesce si associa a una minore presenza di segni neuropatologici di malattia di Alzheimer e, anche se risulta legato a livelli cerebrali di mercurio più elevati, questi ultimi non sembrano correlarsi al grado di degenerazione cerebrale proprio della malattia. Ecco, in sintesi, le conclusioni dell’articolo pubblicato su Jama in cui Martha Clare Morris del Rush University Medical Center di Chicago e colleghi hanno valutato se il consumo di pesce fosse correlato ai livelli di mercurio presenti nel tessuto cerebrale e se la dieta ittica o le concentrazioni di mercurio nel cervello fossero legati alle alterazioni neuropatologiche proprie dell’Alzheimer. Allo scopo sono state selezionate 544 persone decedute e in precedenza arruolate nello studio di coorte Memory and Aging Project svoltosi tra il 2004 e il 2013.

«L’età media al momento della morte era 90 anni, e il 67% del campione oggetto di studio era di genere femminile» spiegano i ricercatori, precisando che il consumo di pesce è stato misurato mediante un questionario di alimentare compilato all’incirca 4,5 anni prima della morte. Nei 286 cervelli sottoposti ad autopsia, da un lato i livelli di mercurio risultano positivamente correlati con il numero di pasti a base di pesce consumati alla settimana, e dall’altro l’alimentazione ricca di pesce risulta inversamente correlata ai segni neuropatologici dell’Alzheimer, tra cui la bassa densità delle placche neuritiche e una minore evidenza dei depositi neurofibrillari solo tra i portatori della variante genica APOE E4, quella associata a un aumentato rischio di malattia. «Il consumo di pesce potrebbe effettivamente ridurre le manifestazioni cliniche della malattia di Alzheimer o la demenza, e i dati di questo studio forniscono una ragionevole rassicurazione che la contaminazione cerebrale da mercurio legata alla dieta ittica non correla con il peggioramento dei segni neuropatologici di Alzheimer a livello cerebrale» conclude in un editoriale di commento Robert Laforce Jr della Université Laval di Quebec City, in Canada.

FARMACI ANTI-ALZHEIMER, LINEE GUIDA EMA

Farmaci anti-Alzheimer, linee guida EMA sul loro sviluppo.
Soprattutto diagnosi precoce e proclitica, valutazione rischio genetico individuale nei famigliari.

L’Agenzia europea per i medicinali (Ema) ha rilasciato una versione rivisitata provvisoria delle linee guide sulle sperimentazioni cliniche di farmaci per il trattamento della malattia di Alzheimer (Ad) e altre forme di demenza, scaricabile per una consultazione pubblica di sei mesi, con richiesta ai soggetti interessati di inviare le proprie osservazioni entro il 31 luglio di quest’anno. Secondo l’Oms, 35,6 milioni di persone soffrono di demenza a livello mondiale e si stima che questo numero sia destinato a raddoppiare entro il 2030. Anche per questo l’Ema considera la demenza come una priorità-chiave per la salute pubblica e segue un approccio “multi-stakeholder” per facilitare la ricerca e lo sviluppo di farmaci più efficaci. Va ricordato che i recenti progressi nella comprensione della fisiopatologia dell’Ad hanno evidenziato come i cambiamenti biologici associati alla malattia iniziano a verificarsi già 10-20 anni prima della comparsa dei sintomi clinici. Pertanto i farmaci sperimentali devono essere valutati in stadi molto precoci della malattia, dato che i trattamenti possono essere più efficaci in questa fase che nel corso della malattia conclamata.

Il nuovo documento tiene conto dei commenti espressi nel corso di un workshop – organizzato dall’Ema nel novembre 2014 sulle sperimentazioni cliniche di farmaci per il trattamento dell’Ad – al quale aveva partecipato una vasta gamma di soggetti interessati, compresi rappresentanti dei pazienti, di enti regolatori e dell’industria farmaceutica, oltre a esperti indipendenti. Scopo dell’incontro: garantire che durante la revisione delle linee guida l’Ema sarebbe stata in grado di prendere in considerazione sia i più avanzati sviluppi scientifici relativi alla comprensione e al trattamento dell’Ad, sia il giudizio degli esperti del settore.

Il testo, nella sua versione attuale, è composto da 14 capitoli (alcuni dettagliati in sottocapitoli) e alcune appendici, tra le quali una dedicata alle definizioni delle entità nosologiche. Tra i punti salienti affrontati dal ‘draft’ spiccano l’impatto dei nuovi criteri diagnostici per l’Ad (specie quelli relativi agli stadi precoci e asintomatici della patologia) sul disegno delle sperimentazioni cliniche, la scelta dei parametri per misurare gli outcomes dei trial e la necessità di impiegare strumenti di valutazione differenti in base ai diversi stadi della malattia. Ampio spazio è dedicato a un settore innovativo quale il potenziale impiego di biomarcatori: come test diagnostici o indicatori di sicurezza e di efficacia o ancora strumenti per selezionare i pazienti, ampliare le popolazioni in studio e stratificare i sottogruppi. Da segnalare, infine, le sezioni dedicate alla progettazione di studi di efficacia e sicurezza a lungo termine e allo sviluppo di strategie di prevenzione.

European Medicines Agency. Draft guideline on the clinical investigation of medicines for the treatment of Alzheimer’s disease and other dementias.

16 THINGS I WOULD WANT, IF I GOT DEMENTIA

When you work in dementia care, people tend to ask you a lot of questions. Probably one of the most common questions that I hear is,

“Are you afraid to get dementia when you’re older?”

Honestly, there are many things that scare me much more than dementia does. Don’t get me wrong: dementia is a terrible group of diseases. I’ve been fortunate, however, to see many of the beautiful moments that people with dementia can experience.

Just in case I do get dementia, I’ve written a list of rules I’d like to live by.

If I get dementia, I’d like my family to hang this wish list up on the wall where I live.

If I get dementia, I want my friends and family to embrace my reality. If I think my spouse is still alive, or if I think we’re visiting my parents for dinner, let me believe those things. I’ll be much happier for it.
If I get dementia, I don’t want to be treated like a child. Talk to me like the adult that I am.
If I get dementia, I still want to enjoy the things that I’ve always enjoyed. Help me find a way to exercise, read, and visit with friends.
If I get dementia, ask me to tell you a story from my past.
If I get dementia, and I become agitated, take the time to figure out what is bothering me.
If I get dementia, treat me the way that you would want to be treated.
If I get dementia, make sure that there are plenty of snacks for me in the house. Even now if I don’t eat I get angry, and if I have dementia, I may have trouble explaining what I need.
If I get dementia, don’t talk about me as if I’m not in the room.
If I get dementia, don’t feel guilty if you cannot care for me 24 hours a day, 7 days a week. It’s not your fault, and you’ve done your best. Find someone who can help you, or choose a great new place for me to live.
If I get dementia, and I live in a dementia care community, please visit me often.
If I get dementia, don’t act frustrated if I mix up names, events, or places. Take a deep breath. It’s not my fault.
If I get dementia, make sure I always have my favorite music playing within earshot.
If I get dementia, and I like to pick up items and carry them around, help me return those items to their original places.
If I get dementia, don’t exclude me from parties and family gatherings.
If I get dementia, know that I still like receiving hugs or handshakes.
If I get dementia, remember that I am still the person you know and love.

STRESS FISICI ED EMOTIVI PER I CAREGIVERS FAMIGLIARI CHE ASSISTONO GLI ANZIANI DISABILI O DEMENTI.

Uno studio pubblicato su Jama Internal Medicine suggerisce che le famiglie e gli operatori sanitari non pagati che forniscono aiuto agli anziani hanno consistenti probabilità di affrontare difficoltà non solo fisiche, ma anche emotive e finanziarie. «Quasi otto milioni di anziani statunitensi con significative disabilità vivono in comunità con l’aiuto dei familiari e di caregiver non retribuiti» esordisce Jennifer Wolff della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, che assieme ai coautori ha analizzato i dati relativi a 1.739 famiglie e operatori sanitari non pagati che prestano assistenza a 1.171 adulti anziani. «Il campione oggetto dello studio è rappresentativo di 14,7 milioni di persone che accudiscono 7,7 milioni di anziani» scrivono i ricercatori, spiegando che tra gli anziani assistiti dai caregiver e dalle famiglie il 45,5% ha una demenza e il 34,3% una grave disabilità. E dai risultati ottenuti emerge che questi operatori familiari volontari sono più esposti a vivere difficoltà emotive, fisiche e finanziarie partecipando sempre meno ad attività sociali come visitare parenti e amici, uscire per divertimento, frequentare servizi religiosi e svolgere attività personali o di gruppo.

«Alla luce di questi risultati serve una maggiore attenzione da parte dei fornitori di servizi sanitari per identificare e sostenere adeguatamente non solo gli operatori a pagamento, ma soprattutto i caregiver familiari non retribuiti che assistono gli anziani disabili e dementi» conclude Wolff. «I dati presentati in questo articolo confermano ed estendono le attuali conoscenze sugli assistenti familiari che garantiscono i livelli più impegnativi di cura per gli anziani ad alto rischio, totalmente su base volontaria e non retribuita» osserva Carol Levine dell’United Hospital Fund of New York, in un editoriale di commento. E conclude: «Accendere i riflettori su caregiver finora rimasti invisibili è solo il primo passo, ma può essere quello più importante».

LE BENZODIAZEPINE NON AUMENTANO IL RISCHIO DI ALZHEIMER.

L’assunzione di benzodiazepine non si associa a un aumento del rischio di demenza negli anziani, almeno secondo quanto conclude uno studio appena pubblicato sul British Medical Journal. «Le benzodiazepine sono medicinali ampiamente usati negli anziani per combattere ansia, insonnia e disturbi depressivi, ma alcuni studi suggeriscono che il loro utilizzo potrebbe essere associato a un aumentato rischio di demenza. E date le potenziali implicazioni in termini di salute pubblica, era necessario comprendere meglio i rischi potenziali connessi al loro uso» esordisce Shelly Gray, che assieme ai colleghi ha analizzato 3.434 persone di 65 anni e oltre senza segni di demenza all’inizio dello studio, seguendole per una media di sette anni ed effettuando test cognitivi biennali. «Il consumo di benzodiazepine è stato valutato utilizzando i dati delle farmacie nel corso di un periodo di 10 anni, registrando anche fattori quali età, genere, presenza di comorbilità, abitudine al fumo, grado di esercizio fisico e stato di salute» scrivono i ricercatori. Durante il follow-up 797 partecipanti, pari al 23% dell’intera coorte, hanno sviluppato demenza, che nell’80% dei casi aveva le caratteristiche cliniche della malattia di Alzheimer.

«A conti fatti, nessuna correlazione è stata osservata tra l’utilizzo di benzodiazepine e demenza o declino cognitivo» riprendono gli autori, precisando che lo studio ha comunque dei limiti, tra cui l’impossibilità di escludere in modo completo i potenziali bias che potrebbero avere influito sui risultati. «Nel complesso, i nostri dati non supportano un’associazione causa-effetto tra uso di benzodiazepine e comparsa di demenza» afferma Gray, sottolineando comunque che, data la possibile associazione tra consumo di benzodiazepine negli anziani ed effetti avversi tra cui eccessiva sedazione, interazioni con altri farmaci, ottundimento emozionale ed effetti stimolanti paradossi, gli operatori sanitari dovrebbero evitarne l’uso se non a fronte di un’effettiva necessità.

ALZHEIMER, NUMERI IN AUMENTO.

I malati sono almeno il doppio se si considera quelli non diagnosticati. L’appello è sempre rivolto alla diagnosi precoce e alla prevenzione : una visita neurologica e test neurocognitivi alle prime avvisaglie sintomatologie. E i test genetici sui famigliari per la valutazione del rischio e per una vera prevenzione.

Sono 600.000 i malati di Alzheimer in Italia, ma a causa dell’invecchiamento della popolazione sono destinati ad aumentare. I costi diretti dell’assistenza ammontano a oltre 11 miliardi di euro, di cui il 73% a carico delle famiglie. Il costo medio annuo per paziente è pari a 70.587 euro, comprensivo dei costi a carico del Servizio sanitario nazionale, di quelli che ricadono direttamente sulle famiglie e dei costi indiretti (gli oneri di assistenza che pesano sui caregiver, i mancati redditi da lavoro dei pazienti, ecc.). È quanto emerge dalla terza ricerca realizzata dal Censis con l’Aima (Associazione italiana malattia di Alzheimer), con il contributo di Lilly, che ha analizzato l’evoluzione negli ultimi sedici anni della condizione dei malati e delle loro famiglie. L’età media dei malati di Alzheimer è di 78,8 anni (era di 77,8 anni nel 2006 e di 73,6 anni nel 1999).

Il 72% dei malati è costituito da pensionati (22 punti percentuali in più rispetto al 2006). E sono invecchiati anche i caregiver impegnati nella loro assistenza: hanno mediamente 59,2 anni (avevano 54,8 anni nel 2006 e 53,3 anni nel 1999). Il caregiver dedica al malato di Alzheimer mediamente 4,4 ore al giorno di assistenza diretta e 10,8 ore di sorveglianza. Il 40% dei caregiver, pur essendo in età lavorativa, non lavora e rispetto a dieci anni fa tra loro è triplicata la percentuale dei disoccupati (il 10% nel 2015, il 3,2% nel 2006). Il 59,1% dei caregiver occupati segnala invece cambiamenti nella vita lavorativa, soprattutto le assenze ripetute (37,2%). Le donne occupate indicano più frequentemente di aver richiesto il part-time (26,9%). L’impegno del caregiver determina conseguenze anche sul suo stato di salute, in particolare tra le donne: l’80,3% accusa stanchezza, il 63,2% non dorme a sufficienza, il 45,3% afferma di soffrire di depressione, il 26,1% si ammala spesso. Ad assistere i malati sono soprattutto figli e badanti. Pur essendo sempre i figli dei malati a prevalere tra i caregiver, in particolare per le pazienti femmine (in questo caso i figli sono il 64,2% dei caregiver), negli ultimi anni nell’assistenza al malato sono aumentati i partner (sono passati dal 25,2% del totale del 2006 al 37% del 2015), soprattutto se il malato è maschio. Questo dato spiega anche l’aumento della quota di malati che vivono in casa propria, in particolare se soli con il coniuge (sono il 34,3% nel 2015, erano il 22,9% del 2006) o soli con la badante (aumentati dal 12,7% al 17,7%). Nell’attività di cura del malato, i caregiver possono contare meno di un tempo sul supporto di altri familiari: nel 2015 vi fa affidamento il 48,6%, mentre nel 2006 era il 53,4%. La badante rimane una figura centrale dell’assistenza al malato di Alzheimer: ad essa fa ricorso complessivamente il 38% delle famiglie. La presenza di una badante ha un impatto significativo sulla disponibilità di tempo libero del caregiver. Se complessivamente il 47,8% dei caregiver segnala un aumento del tempo libero legato alla disponibilità di servizi e farmaci per l’Alzheimer, tra chi può contare sul supporto di una badante la percentuale cresce di oltre 20 punti percentuali (68,8%) e di circa 30 punti nel caso in cui il malato usufruisca della badante e di uno o più servizi (77,1%). Più consapevolezza sulla malattia, ma tempi lunghi per la diagnosi. Il 47,7% dei caregiver afferma di aver reagito subito alla comparsa dei primi sintomi della malattia del proprio assistito, interpellando il medico di medicina generale (47,2%), lo specialista pubblico (33,1%) o lo specialista privato (13,6%).

Solo il 6,1% si è rivolto immediatamente a una Uva (Unità di valutazione Alzheimer). Tuttavia, la gran parte degli intervistati dichiara di aver ricevuto la diagnosi da un professionista diverso da quello consultato per primo (63,1%). A formulare la diagnosi di Alzheimer è principalmente lo specialista pubblico (65,5%), in particolare un neurologo (nel 35,6% dei casi) o un geriatra (29,9%), e solo per il 13,4% è stato uno specialista privato. Nel tempo si è ridotta la percentuale di pazienti che hanno ricevuto la diagnosi da una Uva (dal 41,1% nel 2006 al 20,6% nel 2015), mentre è aumentata la quota di diagnosticati dallo specialista pubblico (era il 37,9% nel 2006, è il 65,5% oggi). Il tempo medio per arrivare a una diagnosi resta elevato, pur essendo diminuito da 2,5 anni nel 1999 a 1,8 anni nel 2015. Un’assistenza sempre più informale e privata. Diminuisce di 10 punti percentuali rispetto al 2006 il numero dei pazienti seguiti da una Uva o da un centro pubblico (56,6%). Quando la patologia è più grave il dato è ancora più basso (46%). Si abbassa leggermente anche la percentuale di pazienti che accedono ai farmaci specifici per l’Alzheimer: dal 59,9% al 56,1%. Ed è diminuito il ricorso a tutti i servizi per l’assistenza e la cura dei malati di Alzheimer: centri diurni (dal 24,9% al 12,5% dei malati), ricoveri in ospedale o in strutture riabilitative e assistenziali (dal 20,9% al 16,6%), assistenza domiciliare integrata e socio-assistenziale (dal 18,5% all’attuale 11,2%). «I tre studi realizzati da Censis e Aima negli ultimi sedici anni evidenziano come stia progressivamente cambiando il mondo dei malati di Alzheimer e delle loro famiglie», ha detto Ketty Vaccaro, responsabile dell’Area Welfare e Salute del Censis. «È un mondo che invecchia e cresce l’impatto della malattia in termini di isolamento sociale. La famiglia è ancora il fulcro dell’assistenza, ma può contare su una disponibilità di servizi che nel tempo si è ulteriormente ristretta, mentre sono ancora presenti le profonde differenziazioni territoriali dell’offerta»

​IL FATTORE TEMPO È DECISIVO IN NEUROLOGIA.

Tempo è cervello. Questo è il tema e il fil rouge che lega tutti i temi al centro della VI edizione della Settimana mondiale del cervello, promossa in Italia dalla Società italiana di neurologia (Sin), che si celebra dal 14 al 20 marzo. Con questo si intende evidenziare, in ambito neurologico, «la lotta contro il tempo per limitare i danni al cervello» ha spiegato a Milano, nell’incontro di presentazione dell’evento, Leandro Provinciali, presidente Sin e direttore della Clinica neurologica degli Ospedali Riuniti di Ancona. L’argomento è stato declinato nel capoluogo lombardo sotto varie sfaccettature. «L’ictus ischemico in fase acuta rappresenta un’emergenza neurologica tempo-dipendente» ha sottolineato Elio Agostoni, direttore della Struttura complessa neurologia e Stroke unit dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano.

«La nuova frontiera di cura è la combinazione di trombolisi sistemica e trombectomia meccanica da eseguire il più precocemente possibile, possibilmente entro le 6 ore dall’esordio dei sintomi». In quest’ottica, ha evidenziato «risulta necessario riorganizzare il sistema di cura nel nostro Paese per garantire a tutti i pazienti candidati la miglior cura possibile». Il tempo come alleato prezioso per la diagnosi precoce di malattie neurologiche prima che diventino troppo avanzate per permetterne un trattamento adeguato. È il caso della malattia di Alzheimer in cui, come ha ricordato Carlo Ferrarese, direttore scientifico del Centro di Neuroscienze dell’Università di Milano-Bicocca, la demenza è preceduta da iniziali deficit di memoria (mild cognitive impairment [Mci]), condizione diagnosticabile con test neuropsicologici. Inoltre l’accumulo progressivo di beta-amiloide nel cervello» nella malattia conclamata è dimostrabile mediante tomografia a emissione di positroni (Pet).

«Attualmente nel paziente con demenza esistono solo terapie sintomatiche, per questo ha un ruolo cruciale la diagnosi precoce del Mci, in quanto le strategie terapeutiche sperimentali potranno essere efficaci solo in fase prodromica». «Una delle più importanti scoperte degli ultimi anni è rappresentata dalla dimostrazione che il processo neurodegenerativo alla base della malattia di Parkinson inizia molti anni prima della comparsa dei sintomi motori e che spesso in questa fase si hanno manifestazioni non motorie rilevanti per il riconoscimento dei soggetti a rischio di sviluppare la malattia permettendo di intervenire precocemente con farmaci neuroprotettivi» ha aggiunto Leonardo Lopiano, direttore Struttura complessa neurologia dell’Aou Città della salute e della scienza di Torino. In una malattia cronica come la sclerosi multipla «effettuare una diagnosi precoce e instaurare un’adeguata terapia può voler dire ribaltare il decorso della malattia, procrastinare o evitare la comparsa di problemi motori o cognitivi» ha detto Gianluigi Mancardi, direttore della Clinica neurologica dell’Università di Genova. «Al contrario ritardare l’inizio della terapia può essere responsabile della comparsa di disturbi non più reversibili e recuperabili». In occasione della Settimana mondiale del cervello, la Sin prevede l’organizzazione, sul territorio nazionale, di incontri divulgativi, convegni scientifici e attività per gli studenti delle scuole elementari e medie.